Lo sciacallo - Recensione


Si sa, in tempi di crisi se non si trova lavoro bisogna inventarselo…Louis Bloom (Jake Gyllenhall) è un trentenne disoccupato, mosso da frustrazione e da una rabbia repressa, che diventa, quasi per caso, un videoreporter free lance. Lou, collegato alle frequenze radio della polizia e con camera in spalla, rincorre i sanguinolenti fatti di cronaca nella notte di Los Angeles. L’obiettivo è rivendere le immagini ai TG locali, ma il suo ego e la smania di successo, lo porteranno verso una deriva morale senza scrupoli. Debutto alla regia dello sceneggiatore 55enne Dan Gilroy, che dirige con la stessa eccitazione che anima il suo protagonista, ma con mano sicura. Gyllenhall per questa parte ha perso almeno 10 chili, volto scavato e occhi a palla, fornisce una delle sue migliori interpretazioni, ma anche Rene Russo (moglie del regista) dona alla spietata responsabile del network, un’energica quanto fragile intensità.
Ben tracciata la psicologia dei personaggi, anche grazie a dialoghi pungenti e ritmati, mentre lo sviluppo dei loro rapporti lascia un senso d’irrisolto. Lo studio televisivo diventa per Louis un luogo utopistico, in cui si scontrano etica ed estetica, mentre sullo sfondo uno skyline full color e sintetico incornicia (imprigiona?) i protagonisti nella sua smagliante (finta?) forma idealizzata. Spietato atto d’accusa ai media, che scoperchia quella zona d’ombra tra realtà e finzione sempre più labile, origine di alienazione e morti di fama, pronti a tutto per denaro e notorietà. Thriller cinico, sul mito dei self-made men, ma anche sulla “civiltà dell'immagine”, in cui l’apparire vincente schiaccia l’essere umano. VOTO 7+

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