Il petroliere - Recensione

A scanso di equivoci fughiamo subito ogni dubbio svelando che “Il petroliere” non è la consueta epopea del west dal respiro epico, ma bensì un film d’autore, troppo spettacolare per essere d’essai e troppo ruvido per piacere alle masse, e se proprio si deve paragonare ad un genere più che al western si farebbe riferimento all’horror, più che a “Il gigante” di  George Stevens a “Shining” di Kubrick, di cui il bellissimo incipit muto e inquietante ne è un chiaro omaggio. Tratto dal romanzo "Oil!" di Upton Sinclair e diretto da Paul Thomas Anderson (Magnolia, Boogie Nights), il film, che in superficie può sembrare l’ennesimo saggio sul sogno americano diventa presto un incubo, raccontando la discesa agl’inferi di Daniel Plainview (Daniel Day-Lewis), un self-made man di inizi ‘900 che sfruttando la credulità della gente, insegue la ricchezza, ma verrà soprafatto da misantropia e avidità, ritrovandosi solo senza passato ne futuro.  Anderson, purtroppo non sempre riesce, come i grandi (vedi Kubrick) a mantenere una solida continuità poetico-formale, e la progressiva enfasi moralista soffoca il respiro epico di molte inquadrature a favore della performance di Day-Lewis, bravissimo (pure troppo) e onnipresente, tanto che con la sua fisicità, fatta di sguardi magnetici e minacciosi, fagocita la storia e penalizza il flusso del racconto, si ha la sensazione, ad un certo punto, che regia e recitazione vadano fuori controllo, come risulta evidente nell’epilogo, forse troppo carico. A favore, c’è da dire che il regista riesce a far convivere la maestosità di un affresco anni 50 e la sensibilità di un racconto minimalista, invitando lo spettatore a “drenare” la superficie della storia senza subirla passivamente, regalandoci un  film eccessivo e crudele, visionario ma grandioso, cosa rara e preziosa di questi tempi, e pazienza se non tutto è riuscito. Uno strano oggetto, da maneggiare con cura, ma da apprezzare per il suo coraggio, come la maestosa e splendida colonna sonora, dalle rapsodie elettroniche, firmata da Jonny Greenwood dei Radiohead. Un film, non facile, che andrebbe “digerito” piano e con tempi lunghi, ricco di spunti filosofici: il duello tra potere materiale e spitiruale su tutti. Per cinefili. VOTO 7/8

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