Barry Lyndon - Capolavoro
Film
del 1975 diretto da Stanley Kubrick, e tratto dal romanzo di William Makepeace
Thackeray, “Le memorie di Barry Lyndon”. E’ un’opera ambiziosa, ma non poteva
essere altrimenti, visto che porta la firma di uno degli artisti più innovativi e provocatori del Novecento. Il
regista americano (naturalizzato inglese) adotta come cifra stilistica i canoni
pittorici del secolo che racconta, questo giustifica i continui zoom, che partendo
dai suoi protagonisti, ci svelano l’intero contesto paesaggistico in cui si
svolge l’azione. Eppure, nonostante la pellicola sia ambientata in un
Settecento mai così credibile, rimane un film ancor oggi moderno, sia per le
allora avanguardiste tecniche di ripresa, che per il messaggio. Kubrick, per
raggiungere un verosimile realismo volle che fosse usata esclusivamente luce naturale, e per gli interni, solo le
ormai note candele. SK, e il suo famigerato perfezionismo, pretesero che fosse
adattato alla camera, per avere un formato che già all’epoca della realizzazione
era old style: il 1.66:1, un obiettivo Zeiss creato per scattare foto dai
satelliti durante le missioni NASA! Infatti, a mio avviso, il primo approccio tra
Redmond (Ryan O'Neal) e Lady Lyndon (Marisa Berenson), che culmina in un bacio,
sarà anche per la freddezza del chiarore di luna, ma possiede un’estetica da Space
Opera. Il film favorisce una visione contemplativa, e nonostante duri quasi tre
ore, si avverte spesso il desiderio di soffermarsi più a lungo sulla bellezza
pittorica di alcuni fotogrammi.
Tutta l’opera è dominata da uno sfavillante vigore figurativo, il cui fascino, nemmeno il più costoso effetto digitale, è stato più in grado di eguagliare. Da notare la curiosa visione “moderna” (per i tempi) sull’amore: nel film le storie omosessuali si rivelano più stabili e felici di quelle etero. Altro accento va posto sulla svolta narrativa, che si ha con l’apparizione certo di Lady Lyndon, ma anche del padre Sir Charles, che è un uomo paralizzato: figura presente anche in “Arancia Meccanica” e ne “Il dottor Stranamore”. Elemento, quindi, ricorrente: il simbolo dell’uomo guidato dalla macchina e non viceversa? O l’apparizione negli snodi cruciali del racconto simboleggia un cambiamento? Il ‘700 è un secolo di passaggio, e il film lascia percepire questa fuggevolezza e l’esigenza di un cambiamento, ed ecco che nel tragicomico duello finale si ristabiliscono i ruoli di classe, il ragazzotto di campagna che cede al sentimento è destinato alla sconfitta, mentre il nobile animato da titolo e rivalsa vince. Barry è un uomo la cui vita sembra più decisa dal destino che dalle sue virtù, e dalla ragione, che pur guida verso un compiaciuto e consapevole individualismo, ma nulla può contro la Storia. In tal senso, significativa la frase finale: “Ricchi e poveri, buoni e cattivi, ora sono tutti uguali”, con cui il famoso nichilismo del regista, sembra voglia prendere le distanze da quel mondo, e dai suoi protagonisti.
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