I figli del fiume giallo - Recensione
Il tema portante dell’opera viene esplicitato nell’incipit. Non nel
contenuto, come da convenzione, bensì nella forma. In neanche 2 minuti il
regista cambia ben 3 formati e altrettanti supporti: pellicola, digitale,
MiniDV. Le nitide riprese di una Cina contemporanea separano un reale passato
da un passato artefatto, quest’ultimo inizia, appunto, con la messa in scena di
una rappresentazione teatrale. Qual è il tema? La mutazione. Tempi e spazi
cambiano, e con essi le persone e l’arte stessa del regista. Paesaggi esteriori
e interiori diventano speculari e s’influenzano. Con quest’opera in tre atti
ambientata nel 2001, 2006 e 2018, Jia Zhangke traspone i cambiamenti sociali
che intervengono in Cina in 17 anni. Ogni capitolo porta con sé un oggetto simbolo
che evoca nello spettatore suggestioni significanti. Nell’ordine: una pistola,
una bottiglia d’acqua e gli smartphone. L’arma rappresenta il coraggio di “far
fuoco” al momento giusto, di creare tutto quel calore che un vulcano genera per
rendere la cenere di un bianco puro. La bottiglia d’acqua è un vuoto a perdere,
sempre mezzo pieno e mezzo vuoto, e simboleggia il limbo in cui cadono i
protagonisti. L’acqua che inonderà la diga delle Tre gole, inoltre, spegnerà il
fuoco della passione. I telefoni di nuova generazione, infine, cambiano il modo
di comunicare. Nel 2006 ci si lasciava dopo un intimo confronto emotivo, nel
2018 con un breve messaggio vocale. La nostra umanità è sempre più fuori fuoco;
filtrata da una moltitudine di schermi è ormai sfocata, di bassa definizione,
come l’immagine che chiude il film. VOTO 7/8
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