Alita: Angelo della battaglia – Recensione

Nel 26esimo secolo, ciò che resta dell’umanità vive ad Iron City, città costruita coi rifiuti della sospesa e ricca Zalem. Tra questi scarti, emergono i resti di una cyborg combattente che prenderà nuova vita. Il più famoso regista low budget (Robert Rodriguez), e quello big budget (James Cameron), hanno unito le forze per portare al cinema un cult manga anni 90. 170 milioni a disposizione, 3 attori premio Oscar (Ali, Connelly e Waltz) e tanti effetti speciali. Il regista messicano pesca a piene mani dall’immaginario cinematografico sci-fi del nuovo millennio, e più di un déjà vu si palesa, ma cita anche “Il mago di Oz” suggerendoci che Alita è una moderna Dorothy che ha smarrito la via di casa. La sceneggiatura, purtroppo, risente della lunga gestazione (ben 15 anni) e come la sua protagonista sembra costruita “a pezzi”. Il risultato è un eclettico incedere di sequenze slegate da un costante cambio di tono. Dramma, orrore, azione, romantico si susseguono in una forzata convivenza amplificata dallo stile onnivoro di Rodriguez. Un modus operandi che impedisce un fluido sviluppo testuale, e allo spettatore di affezionarsi a situazioni e personaggi. Capitolo di “presentazione” di una storia più ampia che, nonostante gli evidenti limiti narrativi, lascia con la curiosità di vederne il seguito. VOTO 5/6


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