Blackhat - Recensione
Il super pirata
informatico Nicholas Hathaway (Chris Hemsworth) viene fatto uscire di prigione
per combattere un blackhat (hacker cattivo), che trasformando un suo vecchio
codice in virus, ha attaccato una centrale nucleare in Cina. Intrighi
internazionali e cyber terrorismo, tra continenti, inseguimenti e sparatorie. Come
dite? Nulla di nuovo? Non bisogna mai fermarsi alle apparenze. Si scrive
blackhat ma si legge blackout, sì, perché quest’opera rappresenta uno strappo
tra Michael Mann, uno dei più geniali registi viventi, e il grande pubblico,
che ne ha decretato il disastro commerciale al botteghino. Le ragioni sono
molteplici, la principale, è che suscita nello spettatore assidui sentimenti
contrastanti: a volte ti cadono le braccia, cinque minuti dopo ti lanceresti in
una liberatoria standing ovation. Bocciato frettolosamente anche dalla critica,
che però non si è accorta che da un (apparente) brutto thriller può nascere del
grande Cinema. La Settima arte è fatta certo di contenuti, ma anche di forma,
visione e suggestione, e qui il Maestro Mann raggiunge apici sublimi.
“Blackhat” è una potente riflessione sullo spazio
filmico e vitale che dobbiamo valorizzare con la nostra identità reale, si noti
la scena dello smarrimento di Nicholas dinanzi all’ampia superficie dell’aeroporto;
l’essere umano, con le sue fragilità, deve rimanere il fulcro della Storia. Il
mondo virtuale influenza e assomiglia sempre più al reale e viceversa, creando
distanze emotive abissali e skyline sempre più simili ai circuiti di un
computer; si veda l’architettura di un mainframe, ripresa nei volumi di
alcuni blocchi di cemento, che diventano ideali barriere di un conflitto a
fuoco. Si pongono domande pesanti: il crescente dominio dello spazio-tempo
digitale avrà la meglio sul mondo fisico? Il cyberspace è solo immateriale? La
narrazione si sviluppa attraverso snodi basici, ma non a caso...se fosse voluto?
Una sorta d’invito alle origini, un back to basic*, come nella scontata storia
d’amore, che scopre il lato viscerale di Nicholas, o nelle armi, d’altri tempi,
scelte per lo scontro finale. Un regista, che non si vuole conformare al mercato
mainstream e alla sua omologata estetica. Un artista capace, a 72 anni, di aver
il coraggio di andare ancora controcorrente rispetto alla massa, come fa il suo
protagonista nel caotico finale, che si definisce un ghostman, e, infatti, rimane
invisibile all’occhio umano. Un film irruento e impressionante, dalla maestosa struttura
visiva, la cui fama e valore, ne sono certo, crescerà nel tempo, promuovendolo
a tetro e assoluto cult. VOTO 8+
P.S.: Hemsworth,
occhi a fessura e tanta voglia di far dimenticare Thor, dimostra di voler e
saper crescere come interprete, grazie a una recitazione più istintiva.
Commenti
Posta un commento