Mia madre - Recensione
Margherita, regista impegnata, gira un film sulla
precarietà del lavoro e sulla crisi economica che affligge la nostra società,
ma contemporaneamente deve fare i conti con la malattia che sta uccidendo la
madre. Margherita Buy, nei panni dell’alter ego di Moretti, è bravissima, e
rende profondamente sfaccettato il suo omonimo personaggio, rappresentandone le
debolezze: l’essere carente, non presente, inadeguato, confuso, in sintesi, il non
accettare se stessi. Giovanni, invece, interpretato da Nanni Moretti, è posato,
sereno e deciso, pronto a mutar vita. È forte quindi il tema del cambiamento,
con l’invito chiaro a non perder tempo a chiedersi chi si è, ma dove si va. Proprio
Berry, l’attore sbruffone interpretato da John Turturro, è forse l’emblema
ideale della maschera che nasconde mille fragilità. Se la sceneggiatura a
tratti può apparire discontinua, è anche vero che questo accresce il senso di
smarrimento di protagonisti e spettatori. La chiave di lettura dell’opera però sta
nel linguaggio, non solo cinematografico ma universale.
Frasi in latino, battute del film nel film, striscioni: ogni modus comunicandi risulta ambiguo; comunicare la realtà è sempre più difficile, proprio oggi, in cui il reale genera finzione. Un cinema che s’interroga sulla vita, su come rappresentarla, prefigurandone una alternativa. Un metacinema non solo cerebrale, ma anche emozionale. Una pellicola ricchissima di contenuti, gravida di sogni, visioni e ricordi. Ritorna così nelle opere del regista romano il tema dell’elaborazione del lutto, ma mentre ne “La stanza del figlio” erano dei fantasmi a muovere l’ispirazione, qui il registro è autobiografico; l’artista è realmente tormentato dalla scomparsa della madre, avvenuta nel 2010. Ne esce un racconto intimo, che trae origine da un dolore privato, rappresentato con estremo pudore. Moretti sembra dirci che è necessario riscoprire la quotidianità degli affetti per andare oltre quell’individualismo, presente già nel titolo, che se ne appropria snaturandoli. Ci dice anche che non si devono dimenticare le proprie origini, e che il verbo avere può diventare essere…da domani. VOTO 7/8
Frasi in latino, battute del film nel film, striscioni: ogni modus comunicandi risulta ambiguo; comunicare la realtà è sempre più difficile, proprio oggi, in cui il reale genera finzione. Un cinema che s’interroga sulla vita, su come rappresentarla, prefigurandone una alternativa. Un metacinema non solo cerebrale, ma anche emozionale. Una pellicola ricchissima di contenuti, gravida di sogni, visioni e ricordi. Ritorna così nelle opere del regista romano il tema dell’elaborazione del lutto, ma mentre ne “La stanza del figlio” erano dei fantasmi a muovere l’ispirazione, qui il registro è autobiografico; l’artista è realmente tormentato dalla scomparsa della madre, avvenuta nel 2010. Ne esce un racconto intimo, che trae origine da un dolore privato, rappresentato con estremo pudore. Moretti sembra dirci che è necessario riscoprire la quotidianità degli affetti per andare oltre quell’individualismo, presente già nel titolo, che se ne appropria snaturandoli. Ci dice anche che non si devono dimenticare le proprie origini, e che il verbo avere può diventare essere…da domani. VOTO 7/8
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