Faust - Recensione
Un incipit, quasi fantasy, con soggettiva mozzafiato, che accarezza le nuvole, scopre un allegorico specchio, e domina il cielo, per passare senza indugio al primo piano del pene di un cadavere, seguito dalla sua cruda autopsia: da un paradiso che non esiste, all’inferno in terra, dall’epica al grottesco, in pochi secondi. Sorprende da subito il Faust di Aleksandr Sokurov, Leone d’oro all’ultimo Festival di Venezia, sia per la forma, con un schermo ridotto a 4/3, che per la sostanza, con una rilettura, liberamente ispirata (si capirà poi quanto), dal capolavoro di Goethe. Il protagonista ha una viscerale brama di conoscere, ma la sua stessa infelicità è nutrita dal dubbio intellettuale, cerca l’anima, ma è soggiogato dagli istinti primari: fame, avidità, lussuria; Satana (qui è un usuraio) però non fa nulla per indurlo in tentazione, se stesso è causa del proprio male. Un mondo sudicio, che il regista deforma con l’uso di filtri, virandone i colori, illuminato da un giallo-verde put